Il “miracolo” della papaya fermentata continua inarrestabile soprattutto per le tasche di chi la vende, spinta com’è da un capillare battage pubblicitario che non risparmia nessun palcoscenico. Premesso che la nostra non è una posizione “di principio”, avversa agli integratori, e che la capacità antiossidante della papaya è ben nota, rilanciamo l’ennesima riflessione su questo frutto tropicale.
Avocado e banana (a elevatissima capacità di scavare i radicali perossilici), mango, ananas, frutti della passione (oltre alla nostra beneamata papaya) posseggono un’elevatissima capacità antiossidante. Altrettanto vale per cocomero (in valori elevati), arance, limoni, pesche, uva, susine, prugne ma anche a fragole e lamponi si attribuiscono altissime capacità protettive dai danni dei radicali liberi. Se pensiamo alla papaya e alle qualità che le vengono attribuite, qualche straccio di prova di sperimentazione clinica che ne sostenga l’impiego nella malattia di Parkinson, nella Sars, nella depressione sarebbe il caso di esibirla.
Con qualche perfidia farmacologica si potrebbe chiedere: qual è la biodìsponibilità (la quantità disponibile di principi attivi per avere l’effetto desiderato) dell’integratore in questione? Studi sperimentali evidenziano come il succo di papaya contenga sostanze efficaci contro l’ipertensione, mentre la papaya fermentata ha dimostrato di essere un attivatore dei macrofagi. Altra caratteristica della papaya, il cui lattice viene adoperato per curare eczemi, efelidi, verruche, è quella di contenere papaina (presente anche nelle foglie) in quantità condizionata dall’età e dal sesso della pianta.
La papaina ha la capacità di “digerire” le proteine, mentre la chimopapaina, un altro enzima proteolitico, è utilizzata per la chemonucleolisi di alcune ernie del disco. Immunostimolante, ma anche fortemente antimicrobica, la papaya contiene numerosi composti ad azione antiossidante con le sostanze fenoliche maggiormente presenti negli alberi maschili.