Devo ammettere che personalmente nelle diete ci sono sempre stata immersa. Ero una di quelle bambine che potevano vantare, negli anni ’80 non era così facile, una mamma sempre a dieta. Ricordo che una volta fece la dieta della dottoressa Tirone. Ve la ricordate la dottoressa Tirone? Io si! E chi se la scorda! La sua dieta era in vendita in farmacia con un kit di tavolette e integratori. Una scatola che conteneva il piano alimentare stampato su un foglio lungo come un lenzuolo. Mia madre lo scrutava come se fosse una pergamena sacra attenendosi rigorosamente alle prescrizioni e mentre era intenta ad attingere alla sua personalissima fonte del sapere alimentare non tollerava di essere disturbata da nessuno.
Devo dire che anch’io già a 15 anni non facevo altro che dire: “Devo mettermi a dieta”. Ma non giudicate male mia madre per questo; ogni volta che le comunicavo le mie intenzioni, mi ignorava bonariamente e d’altra parte non ricordo di essere mai andata avanti con le mie diete inventate per un tempo superiore alla durata di un pasto. Non consideravo le mie rotondità una vera emergenza e d’altra parte ero convinta che potevo dimagrire quando volevo. La vita sembrava darmi ragione, perché dopo la mia fortuita perdita di peso causata dalla colite sembrava che per me non ci fosse nulla di più facile che mantenere il peso forma.
Fu solo quando, ormai adulta, varcai nuovamente la soglia dei 66 (chili!) che mi fu chiara la cruda realtà: se hai passato i 35 (anni!) buttare giù anche un etto può rivelarsi un’impresa molto ardua. Mentre a 26-27 anni un periodo di eccessi lo cancelli dal tuo sedere rinunciando ai cioccolatini per una settimana, superata quell’età è un lusso che puoi scordarti. Prova e vedrai! Ma io allora non potevo saperlo e dopo aver visto quella mia foto in cui la ciccia sembrava volersi staccare dalla mai immagine e bucare la carta patinata, questo fu il primo tentativo, ingenuo, lo ammetto, che feci. Ma si!, dissi a me stessa, limitati un po’ e vedrai che andrà meglio.
E così prese il via il piano A: una dieta senza eccessi, niente dolcetti, poco pane, poca pasta, niente alcolici. Vedrai, mi ripetevo, che bella sorpresa troverai già fra tre giorni sulla bilancia. E così il mio primo giorno di dieta cominciò: a colazione uno yogurt, il solito caffè amaro e due biscotti. Con il risultato che dopo un’ora ero affamata più di prima. Mi dissi che potevo concedermi uno spuntino di mezza mattina e così arraffai una mela che trangugiai ad una velocità impressionate e con lo stesso spirito con il quale immagino una donna preistorica abbia addentato il primo cosciotto di dinosauro cotto alla brace della storia dell’umanità.
Neanche a dirlo, il tempo che mi separava dall’ora di pranzo mi sembrò interminabile. Erano appena le 13 quando mi decisi a preparare il mio parco e salutare pasto: 50 grammi di pasta e una quantità imprecisata di minestrone (dal quale tolsi i fagioli ad uno ad uno). Dopo la pasta: frutta e tanti auguri di non aver fame subito dopo il caffè. Cosa che invece puntualmente accadde: a neppure due ore dal pranzo avevo già voglia di uno spuntino. Quindi stavolta presi uno yogurt dal frigo ma con mio grande disappunto servì a poco.
La mia merenda era stata prematura e sapevo che quella era la mia ultima possibilità di sfamarmi fino a sera altrimenti, di spuntino in spuntino, avrei vanificato tutti i miei sforzi. E così con lo stomaco in subbuglio e con la stessa carica di buonumore di un fumatore in crisi d’astinenza arrivai a sera. Preparai per cena un petto di pollo arrosto, abbondante insalata e i leggendari 30 grammi di pane che ogni dieta da rotocalco che si rispetti concede. Andai a letto prestissimo. Affamata ma felice. Ero stata brava e non vedevo l’ora che fosse mattina per presentarmi al mio primo appuntamento, dopo molto tempo, con la bilancia.
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Capitoli precedenti:
Diario di una dieta, la decisione di cominciare